A qualcuno piace l’arte

Sguardo ai giovani nelle sale del territorio. Al Rondinella ogni anno si propongono percorsi rivolti alle scuole, al Metropolis ci sono le Cinemerende

Cinema, ma non solo. Nel Nordmilano c’è grande fermento intorno alla produzione culturale che riguarda le arti visive. Se i cinema sono rimasti pochi, la maggior parte gestiti dalle parrocchie, fioriscono le scuole in cui si organizzano corsi di teatro e danza, ma anche regia e fotografia.
Ne sa qualcosa Mario Leclere, cubano di origine, che solo qualche anno fa ha fondato Artetika, circolo Arci con sede a Cinisello Balsamo. «Il nostro obiettivo era offrire corsi a chi vuole imparare a fare cinema a 360 gradi, dalle riprese, al montaggio e perfino il trucco», spiega Leclere. Nonostante siano partiti con grandi speranze e con insegnanti qualificati e di vasta esperienza, Artetika non è decollata come Mario sperava: «Purtroppo abbiamo avuto troppe poche iscrizioni ai corsi, forse perché molti si interessano a queste discipline in modo amatoriale, cercando corsi meno approfonditi ma a basso prezzo». Dopo mesi di patimenti economici, Artetika è stata costretta a lasciare la propria sede di via Segantini: «È un grande dispiacere lasciare Cinisello, in ogni caso continuiamo a produrre cortometraggi, in collaborazione con l’associazione locale Cinebaloss e con diverse realtà che fioriscono in questa città e che troviamo interessanti».
Resiliente e resistente è invece la produzione del Cinema Rondinella, arrivata quest’anno alla 23esima stagione gestita da Cgs Rondinella e Cooperativa Fuorischermo. Propone soprattutto cinema d’essai ma con un’attenzione particolare al coinvolgimento dei più giovani. «Ogni anno, col progetto ‘Cinema per crescere’, proponiamo un percorso rivoto alle scuole, che vengono qui in sala cinematografica – raccontano dal Rondinella -. Abbiamo anche una proposta teatrale, un pacchetto da quattro spettacoli che coinvolge compagnie professionali di teatro ragazzi come il Teatro del Buratto. Quest’anno hanno aderito 2mila studenti di materne, elementari e medie». Nel 2018, gli spettatori appartenenti alla ‘fascia ragazzi’ sono stati 12mila. «È vincente il carattere educativo della proposta – chiosano dal Rondinella – che ci differenzia dai multisala».
Grande attenzione ai giovani arriva anche da Area Metropolis 2.0 di Paderno Dugnano, la sala gestita da Fondazione Cineteca, che organizza tantissime iniziative per i più piccoli. Dalle Cinemerende, il progetto ideato insieme al Consiglio Comunale dei Ragazzi e delle Ragazze, alle rassegne ad hoc, fino ai campus estivi rivolti ai piccolissimi registi in erba (dalla scuola media alla prima superiore). Durante i campus i ragazzi, seguiti da un regista professionista, gireranno cortometraggi, che poi verranno proiettati all’interno del festival ‘Piccolo grande cinema’, in programma il prossimo autunno.


La fabbrica della memoria che ricorda chi eravamo

L’ideatrice: «Cerco di mettere in scena il trasporto del racconto»

Una pièce teatrale che unisce recitazione, danza, proiezioni multimediali e, soprattutto Storia, quella con l’iniziale maiuscola. ‘La fabbrica della memoria’ è andato in scena il 25 gennaio allo spazio Mil, realizzando un boom di pubblico «inaspettato», come racconta la regista e danzatrice Sara Valota, che a Sesto ha fondato una scuola di musica e teatro, l’Hdemia Il Camaleonte.
«Lo spettacolo ha debuttato nel 2011 sul palco del Carroponte – spiega Valota – Da quel momento la produzione è cambiata, cresciuta, ha viaggiato fino a Parigi. Ma l’obiettivo è sempre stato raccontare l’identità di una città, la ‘Sesto delle fabbriche’, attraversata dalla guerra, dalle deportazioni, dal boom economico e alla fine, dalla dismissione di questi grandi centri di produzione che per i lavoratori e le lavoratrici erano diventati una seconda casa». A raccontare la storia sono tre donne, che arrivano, giovani e spaesate, nella Sesto del primo dopoguerra. La narrazione è accompagnata da foto inedite delle aree ex Falck, dalle musiche originali di Alex Aliprandi e da un corpo di ballo. Quest’anno sono stati 20 gli attori e i danzatori a calcare il palcoscenico. «Inizialmente, la storia si concludeva con la fine della Seconda Guerra Mondiale ma nel corso degli anni la abbiamo ampliata raccontando anche della dismissione delle fabbriche», prosegue.
Un racconto che Sara ha vissuto indirettamente attraverso gli occhi di suo padre, operaio Falck e poi Sondel. «La dismissione è stato un duro colpo per molti sestesi, le fabbriche creavano identità e fornivano servizi importanti come asili e colonie estive. Una volta smantellate, era strano che noi cittadini non potessimo più accedere a quello che fino a poco tempo prima aveva rappresentato il cuore di Sesto». Le stesse fabbriche hanno dato vita al fenomeno della Resistenza operaia, con gli scioperi del 1943 e la successiva deportazione di centinaia di operai, che è valsa alla città la medaglia d’oro al valor militare. «Ho condotto diverse ricerche sugli anni della deportazione – puntualizza Sara – anche con l’aiuto dell’Aned. È sicuramente la parte più intensa dello spettacolo». Dopo 5 anni dalla prima versione de ‘La fabbrica della memoria’, il pubblico non ha perso l’entusiasmo e si presenta puntuale alla replica annuale: «ci sono persone che hanno visto lo spettacolo anche due o tre volte. Credo sia merito dell’emozione, che cerco di trasmettere, al di là del racconto storico. Voglio mettere in scena il trasporto che si coglie nei racconti di chi in quegli anni ha vissuto scioperi e deportazioni, in prima persona o sulla pelle dei propri famigliari». Ora si punta a portare l’opera fuori dai confini della città «in tutta Italia e, perché no, anche all’estero», chiosa la regista.


La città come non l’avete mai vista

«È un documentario dritto, crudo, sincero, nelle immagini e nel linguaggio»

È ambientato soprattutto a Bresso, con qualche ‘trasferta’ a Sesto e Milano, il documentario ‘Funeralopolis, a suburban portrait’ che racconta, essenzialmente, una storia di amicizia. Vash e Felce sono due giovani cresciuti tra il campetto da calcio e le case popolari di Bresso.
Per vivere hanno qualche lavoro saltuario e fanno musica; un giorno scoprono l’eroina. A quel punto la loro quotidianità diventa una voragine onirica che li porta dai palchi alle tombe del cimitero, passando per una città che assomiglia a un deserto. Alessandro Redaelli, classe 1991, è la ‘mano invisibile’ del documentario. Il giovane regista, anche lui bressese, ha iniziato a seguire i ragazzi nel 2015, per un anno e mezzo, e oggi ha passato la preselezione per i David di Donatello 2019.
A cosa si deve il successo di Funeralopolis?
«Sicuramente c’è un elemento voyeuristico, le scene narrate sono piuttosto estreme. Ma c’è anche la struttura, che è diversa da quella del documentario classico. Ho seguito i protagonisti senza intervenire mai, non ci sono
interviste ad esempio. Il risultato è che i 50 minuti assomigliano più a un film di fiction».
Come mai hai scelto proprio Vash e Felce come soggetto?
«Ci siamo conosciuti da ragazzini, a 14 anni. Loro passavano il tempo facendo musica e battaglie rap sotto i portici del city center. Poi li ho incontrati di nuovo nel 2015, non so bene cosa mi aspettassi. Parallelamente all’inizio delle riprese, hanno iniziato un percorso di tossicodipendenza. Sono ‘personaggi’ di grande cultura e intelligenza, vederli buttarsi in questa situazione mi ha stupito».
C’è una ‘morale’ che il film vuole comunicare?
«Non volevo dare una direzione specifica allo spettatore, il cinema serve soprattutto a porsi domande, non a dare risposte. Anche se sfido chiunque a reputare l’eroina una cosa buona e giusta».
Però il consumo di questa droga è in aumento…
«Credo che sia dovuto a due fattori collegati: primo, non si fa più ‘terrorismo psicologico’ sull’eroina. Se ne parla molto meno, si è abbassata la guardia, e quel che rimane è l’immagine pop stile ‘Fight Club’. Secondo, la comunicazione tradizionale (come la pubblicità progresso) non funziona più. Spero che il film, proprio perché non è una lezioncina, arrivi come sottotesto agli spettatori».
Ti sei mai sentito fuori luogo durante le riprese?
«Sì, all’inizio. Ero nel bagno di un treno mentre si facevano una dose, non avevo mai visto nessuno farsi così. Ho pensato: devo ragionare da videomaker, uniformarmi con lo sguardo della camera».
I due protagonisti hanno avuto remore a comparire in scene così crude?
«Inizialmente sì, però hanno concluso che comunque era una storia importante, che andava raccontata. Fra l’altro, nell’ultimo anno si sono disintossicati. Credo e spero che il film abbia giocato un ruolo importante in questo senso, rivedersi in alcune situazioni fa un certo effetto».
Qual è il futuro di Funeralopolis?
«Recentemente abbiamo trovato K48, una casa di produzione homevideo. Non è stato facile soprattutto per il linguaggio, crudo e diretto, che ci è valso il bollino rosso di film vietato ai minori. Ma non mi pento: censurare il linguaggio dei personaggi avrebbe significato snaturarli».
Continuerai a lavorare su questo tipo di temi?
«Sono al lavoro da sei mesi su un nuovo documentario, ci vorrà ancora un anno per vedere qualcosa. Intanto, però, non posso svelare nulla».